Il futuro dell’editoria è digital? La parola ad Annalisa Monfreda, giornalista ed esperta di leadership
Balikwas è una parola filippina che indica un cambiamento improvviso. Qualcosa di inaspettato e stravolgente che ci fa uscire dalla nostra zona di comfort e conoscere nuovi lati di noi stessi. Un termine intraducibile in nessun’altra lingua al mondo.
Trasferendo questo pensiero all’editoria italiana mi viene in mente che quello che sta avvenendo oggi fa parte di un processo lungo e non improvviso, ma di fatto stravolgente. Ne parliamo con Annalisa Monfreda, classe 1978, alla guida di Donna Moderna per nove anni, direttrice anche di Star Bene e Tu Style, e precedentemente di Geo, Cosmopolitan e TopGirl. Già co-fondatrice di Diagonal, agenzia che si occupa di trasformazione culturale all’interno delle aziende, da gennaio 2022 Annalisa ha deciso di investire tutta la sua energia, professionalità ed esperienza in una nuova avventura. Tutta digitale. Ma non solo.
Un cambiamento che racconta nel suo editoriale su LinkedIn, “Breve storia delle mie dimissioni”, che ha fatto abbastanza scalpore. Ecco cosa ci ha raccontato.
Stai vivendo il tuo cambiamento improvviso?
Se questa parola indica il cambiamento improvviso e non gestito la risposta è no. Sto vivendo un cambiamento senz’altro, ma è la conclusione di tanti anni di riflessione ed elaborazione su quello che non andava nel modello in cui ero immersa. È qualcosa che è avvenuto con la lentezza inesorabile e irreversibile dei movimenti della crosta terrestre. Talmente lento che mi è sembrato di smuovere una montagna che si è spostata un centimetro alla volta, ma si è spostata. Ora è visibile la conseguenza di questo lentissimo cambiamento.
Non è da tutti raccontare i propri sbagli… hai scritto un editoriale su Linkedin che ha fatto scalpore…
Ho lavorato tanto sul tema del fallimento e proprio a una Fuck Up Nights, dove ho conosciuto quella che oggi è la mia socia, ho raccontato del mio fallimento di leadership. Quando sono diventata direttrice di testata (era TopGirl) per la prima volta avevo 30 anni e ho scoperto che il modo con cui mi rapportavo alle persone e gestivo il team non andava bene. Da quel momento in poi per me comprendere che cosa è fallito in un processo è diventato parte del mio modo di lavorare. Tante volte ho dichiarato falliti i tentativi di cambiamento, ho fermato le macchine, preso coscienza, condiviso e analizzato con il team cosa non ha funzionato per non ripetere gli stessi errori. Posso capire che non suoni tanto comune…
Poco italiano dome approccio…
All’estero è abbastanza normale, mentre in Italia si fa ancora molta fatica a parlare di questi aspetti del lavoro. Se tutti però avessero il coraggio di provare a capire cosa non ha funzionato è un metodo che, ti assicuro, abbassa la tensione. Su Linkedin ognuno si vende, giustamente, al meglio ma a volte non ci si rende conto che in realtà quel tipo di racconto è inflazionato e non mostra minimamente la nostra unicità. Se tutti cominciassimo a raccontare anche quello che non ha funzionato diventeremmo sicuramente più interessanti. Per esempio dopo il mio editoriale su Linkedin in molti mi hanno contatto per avere una consulenza. E non è così strano: chiedere a una persona che ha già fatto degli errori e che li ha analizzati è forse qualcuno da cui imparare qualcosa. Io credo che sarebbe bello poter insegnare questo approccio alla vita e al lavoro anche nelle scuole.
“Nel team anche chi sta in “panchina” sta giocando la partita”, Annalisa Monfreda
Nel tuo editoriale fai un paragone tra l’editoria e il mondo del calcio, dici che dalla panchina si gioca la partita…
Le partite di calcio sono davvero un esempio perfetto di come tutti hanno un ruolo. E chi sta in panchina non vuol dire che non serva o che non faccia nulla. Penso alle donne che stanno a casa e si occupano della famiglia, il loro lavoro, impegno e fatica ancora oggi è poco considerato. Intendo che facciamo fatica a concepire la “cura” come un lavoro. Il lavoro è di chi esce di casa e di chi gioca la partita. Ma non è così. Chi sta dietro le quinte ha un grande valore per la società.
Per te l’editoria italiana che strada sta prendendo?
Una parte sembra ancora ancorata a un modello passato che attribuisce importanza vitale agli inserzionisti e non ai lettori. Un modello che opportunamente innovato e reinterpretato può ancora funzionare. Dall’altra parte c’è chi invece mette al centro il lettore che diventa il fulcro del contenuto. E in questo caso si torna a fare giornalismo incentrato sul lettore, attività che porta delle revenue importanti e anche della pubblicità “onesta”, con audience davvero interessata, profilata e reale. In Italia lo stanno facendo bene Il Post. Fidelizzare il lettore è l’unico futuro possibile. È la grande occasione che abbiamo oggi. I giovani lettori sono abituati a pagare per leggere un contenuto di qualità sul web. E questo permetterebbe di tornare a fare un buon giornalismo che merita di essere pagato e che negli ultimi anni un po’ ce lo siamo scordati.
“I giovani oggi dovrebbero poter avere il loro spazio sui quotidiani, serve a loro ma anche a noi”
Parliamo della Generazione Z, secondo te si informano principalmente su Instagram?
Al momento sì, Instagram e Tik Tok, è il loro mondo. Ma sono consapevoli che non è uno strumento di approfondimento. Per fare un esempio, sanno più o meno chi è Patrick Zaki, ma finisce lì. I social, per loro stessa natura di scorrimento, hanno interfacce fatte per non restare più di un tot su un contenuto ma per passare subito a un altro stimolo. Sono comunque un canale potentissimo per far passare un messaggio e compiere anche una rivoluzione culturale. Il continuare a battere il chiodo su un tema fa in modo che questo diventi virale e arrivi ovunque. Il loro ruolo è quello di svegliare, di rendersi “awake”, come dicono in America. Quello che mi piacerebbe è che i giovani oggi avessero a disposizione degli strumenti dove andare subito ad approfondire. E altro non può essere che una piattaforma digitale oppure anche un magazine cartaceo ma completamente diverso da quello a cui siamo abituati oggi. Ma ribadisco, lo spazio dell’approfondimento, non sono i social.
Secondo te c’è attrito tra le generazioni oggi nel mondo del lavoro?
A volte nei “senior” sento della chiusura e un senso di superiorità nei confronti delle nuove leve. Le prime pagine dei giornali oggi sono ancora un po’ territorio di personaggi che provano a fare i moderni ma spesso non capiscono – e non conoscono – veramente chi sono i giovani di oggi. Per fare un esempio, noto che appena c’è da cavalcare notizie per screditare il pensiero dei ragazzi per esempio sull’ambiente non si perde mai l’occasione di farlo. La verità è che la giovane generazione non ha voce sui grandi quotidiani. A Donna Moderna ho dato tanto spazio loro perché mi rendevo che erano voci davvero nuove che portano riflessioni di cui tutti abbiamo bisogno. Credo che se anche i quotidiani più tradizionali dessero loro voce a ci guadagneremmo tutti.
“Il social media manager di un magazine dovrebbe essere un bravo giornalista ma anche un master della conversazione”
Parliamo di Social Media, secondo chi deve occuparsene davvero, il giornalista è adatto?
Ho tanti dubbi oggi su che cos’è giornalismo o cosa no lo è. Vedo che molti social media manager sono degli ottimi giornalisti senza esserlo. Credo che l’abilità necessaria per gestire al massimo un social media sia essere un “master della conversazione”. Il giornalista deve scrivere una notizia per quella che è, nel modo più onesto e verificato possibile, mentre quello che accade sui social è che per innescare conversazioni spesso un fatto viene raccontato in un modo che non porta da nessuna parte se non a creare un forte engagement. Senz’altro deve essere parte del corpo redazionale, perché quello che succede sui social deve tornare in tutte le altre forme di informazione che vengono prodotte, dal web al cartaceo. Su Donna Moderna attingevamo moltissimo dai messaggi e dalle lettere che arrivano dai social perché è un patrimonio incredibile di storie e riflessioni.
Chiudo con il classico: cosa farai da grande?
Con Diagonal, già avviato da qualche anno, ci occupiamo di fare “trasformazione culturale” all’interno dell’aziende e poi sto lavorando a una start up editoriale dove vorrei mettere in pratica tutto quello che in questi anni di consapevolezza ho metabolizzato. È qualcosa che non avrei mai potuto sperimentare all’interno di un’azienda grande. Poi, chissà, se non funziona e scriverò un nuovo editoriale per capire cosa è andato storto e perché (ride, ndr). Ma ti racconterò più avanti.
Leggi anche:
FORMAZIONE IN STREAMING: DOPO IL BOOM DEL LOCKDOWN COSA ACCADRÀ?
IL LAVORO AL TEMPO DI IOP, PAROLA DI FILIPPO POLETTI