Fuck Up Nights, perché fallire fa bene: il format spiegato da Montserrat Fernandez Blanco
Chi l’ha detto che il fallimento è qualcosa di cui vergognarsi? E se fosse invece un momento no della nostra vita che ci porta in un posto migliore? Potrebbe suonare come una banalità, ma c’è qualcuno che questa domanda se l’è fatta e che, da anni, ci lavora sopra. E non lo fa nella solitudine della sua cameretta, ma lo fa con gli altri. Serate in cui si esorcizza in gruppo il “fottuto” fallimento. Tutti siamo pieni di cambi di rotta, progetti andati male, abortiti o mai decollati. E allora? Siamo umani e l’errore fa parte della nostra natura. Ne abbiamo parlato con Montserrat Fernandez Blanco, organizzatrice di eventi culturali che ha portato a Milano le Fuck Up Nights, un format di “condivisione” di qualcosa che è andato storto ma da cui comunque siamo sopravvissuti.
Montserrat, raccontaci come sono nate le Fuck up Nights e cosa ti ha fatto portare questo progetto in Italia?
“Nel 2009 sono stata tra i primissimi ad aprire un spazio di co-working in Italia. Allora era una vera novità! Ci guardavano come alieni: non si capiva cosa stavamo facendo! Da allora questi luoghi di condivisione lavorativa hanno fatto da casa, in Italia e nel mondo, ha milioni di start up, moltissime delle quali poi non sono partite oppure sono fallite nel tempo. Nel mio percorso da startupper ad un certo punto ho capito che tutta la fatica che c’è dietro a un successo (o fallimento) non viene mai raccontato. Non si parla mai del fatto che quando ci si imbarca in un’impresa, piccola o grande che sia, la percentuale di fallimento è infinitamente superiore a quella del successo.
Da allora per me questo tema è diventato un’ossessione. Volevo capire perché non si parla mai di quello che non funziona sul lavoro. Durante questa mia ricerca ho conosciuto una “collega” messicana che nel 2012 a Città del Messico ha creato un bellissimo format. Si trattava di serate durante le quali le persone si trovavano per condividere con gli altri i propri errori e fallimenti sul lavoro.
Così sono nate le Fuck Up Nights, serate di cui ci si libera del peso della vergogna di aver fallito. Un modo, insomma, di chiudere un cerchio. Siamo abituati a raccontare e ad ascoltare solo storie di successi, per questo siamo poco inclini a condividere qualcosa che è andato male. Si soffre in silenzio e in solitudine, ma la verità che è proprio in quei momenti che si ha più bisogno degli altri, di essere ascoltati e compresi. La verità è che tutti falliamo, continuamente, è non è una bella sensazione. Tutti ci auguriamo di non vivere quell’esperienza. Ma spesso è inevitabile”.
Ci spieghi un po’ il format…
Il format è semplicissimo. Si tratta di una serata in cui 3 persone alla volta raccontano loro storia di fallimento per circa 15 minuti, dopo di che ci sono le domande del pubblico. Un po’ diverso dalla versione messicana, dove lo speech dura 7 minuti e con 10 slide i protagonisti cristallizzano la loro esperienza. Io, che son cresciuta con le suore, odio le regole e quindi ho fatto qualche modifica (ride, ndr).
Le storie di fallimento che hai portato sul palco nel corso di questi 7 anni sono cambiate?
All’inizio si trattava principalmente di start-up e imprenditori che hanno fallito e cambiato strada poi mi sono imbattuta in storie più personali e intime. I fallimenti, in generale, non sono solo lavorativi, lo sappiamo bene. Esistono quelli sentimentali, ma anche quelli con noi stessi. Anche se non siamo come gli americani che, per quanto reagiscano a una caduta con coraggio, puntano comunque al raggiungimento del successo sul lavoro, anche in Italia oggi il peso di arrivare a certi status è sempre più forte. Sia sul lavoro sia nella vita provata. Ed è un bel peso, per tutti.
Le Fuck Up Nights hanno a che fare con la resilienza?
Roberto Saviano è stato tra i nostri speaker e salendo sul palco ha detto “Come ti conosci nel fallimento, non ti conosci mai”. Ed è vero, vincere è bello, ma suscita meno riflessione. Quando le cose vanno male davvero è solo allora che ci si fa delle domande. Quando si ha un obiettivo chiaro, ma non si riesce a raggiungere facciamo fatica a fermarci per prendere consapevolezza e trarre insegnamento dall’esperienza vissuta per pensare al nostro futuro in modo costruttivo.
Selezioni tu le storie o le persone si possono candidare?
“Questa battuta la faccio sempre: da qualche anno sono diventata una “ricercatrice di falliti”. Un ruolo ingrato perché, ad esempio, ti potrei chiamare e dirti “Ciao Elisabetta, sono Montserrat di Fuck Up Nights e cerco falliti, ho pensato a te”. Di solito le persone quando vengono chiamate per degli eventi si sentono importanti e privilegiate mentre in questo caso arrivo io che ti chiamo perché penso che tu sia un fallito (ride, ndr). Ovviamente è esattamente il contrario, invito solo persone che mi piacciono e con delle storie da raccontare”.
Sbagliando si impara, ce lo dicono da quando siamo piccoli. Secondo te perché è così importante parlare di fallimento, vogliamo forse far crollare un tabù?
È fondamentale che le persone non si ritrovino più da sole a vivere il fallimenti e le sue conseguenze. Credo che sia necessario trovare una forma più sana di vivere queste esperienze. Viviamo in momento storico dove bisogna essere il migliore dei migliori per avere quello che si vuole. Questo è un peso assurdo per le nostre spalle. Per approfondire questi temi, oltre alle Fuck Up Nights, è nato anche un altro progetto, si chiama Nascosto, ed è un podcast nato con Mario Calabresi in cui lasciamo più spazio ai racconti degli speaker dove possono mostrare il proprio lato “nascosto”, che tutti abbiamo”.
Da tutta questa esperienza che stai vivendo tu cos’hai imparato?
Ho sempre avuto molta paura del fallimento, per questo credo molto in questo progetto. Sono una di quelle persone che non fa le cose per paura di fallire, secondo me è una delle cose più terribili.
Su questi temi che letture suggerisci?
La letteratura su questo tema non è molta, ma suggerisco Il magico potere del fallimento di Charles Pépin e The School of Life: An Emotional Education di Alain de Botton.
IL LAVORO AL TEMPO DI IOP, PAROLA DI FILIPPO POLETTI